Deutsch Wind

Rieccomi qui, cari miei quattro lettori, a farmi sentire dopo due mesi di silenzio stampa segnati da un’intensa attività lavorativa contrapposta a momenti di letargo, chiusura, riposo, immobilismo che si sono presi ogni mio attimo libero.
Un letargo, che sia reale, metaforico o un’equa commistione di entrambi, è come un sonno: non sterile periodo di buio e oblio, bensì ricco di attività onirica. Mille e mille elementi, luminosi e oscuri, si agitano e ribollono nell’ombra, e nel ribollire capita a volte che qualcosa venga a galla e si palesi. Così è stato per me: alcune cose nascoste nell’oscurità si sono lentamente palesate, hanno assunto una forma primordiale, una grigia sagoma d’ombra, e si sono fatte implacabili inevitabili fantasmi e hanno iniziato ad affollarmi la testa e il cuore.
Per un curioso complotto del Caso, l’apice di questo processo è avvenuto durante la mia breve vacanza tedesca alla fine del mese scorso. Tale esperienza, più precisamente, è stata la ciliegina sulla torta: una combinazione di fattori, un turbinio di elementi che ha tolto la polvere dagli ingranaggi e ha acceso una lampadina, permettendomi di vedere le cose con un po’ più di chiarezza.

Il primo colpo di vento è stato rivedere dopo cinque mesi una cara amica, una sorella, una compagna strega. Tornare a sorseggiare caffè insieme, ma caffè americano (che ho imparato ad apprezzare) invece che espresso. Tornare a mangiare insieme, ma bretzel invece che pizza. Fare shopping insieme, ma da Primark e da Deichmann invece che da Decathlon. Parlare per ore di noi, delle nostre speranze, dei nostri desideri, delle nostre paure, ma sedute a a un gelido tavolino fuori da Starbucks a Stuttgart invece che su una panchina sulla cima di una montagna a San Pancrazio. Certe cose cambiano, ma quelle importanti rimangono le stesse.

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Il secondo colpo di vento è stato un concerto. Riscoprire, forse per la prima volta in modo pieno, una band favolosa che da vent’anni regala al mondo, con britannica eleganza e un pizzico di strafottenza, una scarica di emozione che si trasmette per osmosi. Potevo sentire l’emozione propagarsi nell’aria di quel palazzetto, tra il pubblico tedesco un po’ mogio e indifferente. Più che un Placebo, questo concerto è stata una vera e propria medicina.

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Il terzo colpo di vento è stata la città di Ulm: camminare per le vie della vecchia Ulm arroccata sul Danubio blu che scorre e scorre e scorre modificando lentamente ma inesorabilmente l’aspetto delle case e degli edifici, che sembra quasi vogliano gettarvisi dentro per accompagnarlo nel suo solitario fluire verso il mare del nord; i mercatini di Natale con i loro oggettini, i dolciumi, l’odore del Glühwein, i banchetti che vendono hot dog e altre specialità che diffondono nell’aria un olezzo di carne e unto e fritto così intenso da sembrare rancido, intervallato a tratti da un caldo e confortevole odore di biscotti speziati.
E poi lei.
La Cattedrale.
La C maiuscola è d’obbligo: Ulmer Münster è infatti un duomo gotico grandioso il cui campanile vanta il primato di più alto d’Europa, con i suoi 161,53 metri e la bellezza di 768 gradini.

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Il quarto e ultimo colpo di vento mi ha catapultata nuovamente a casa mia, in Italia. Ho ritrovato tutto come lo avevo lasciato. I miei tre cani sono stati amorevolmente accuditi dai nonni. I miei allievi a quattro zampe mi hanno aspettata pazientemente per ricominciare con le nostre scampagnate nei boschi. Il meteo si è sbizzarrito durante la mia assenza, con tempeste, alluvioni e devastazioni, ma ora è tornato nella norma.
Tutto è rimasto uguale, tutto nella norma.
Tutto tranne me.
Il cambiamento che covava nell’ombra è venuto alla luce, finalmente. Mille nuove avventure mi aspettano, tutte pronte ad essere vissute e a darmi enormi soddisfazioni; a un solo patto, però:
agire.
Risalire la mia personale cattedrale, alta, enorme, spaventosa, protesa verso l’ignoto, protesa verso il divino.
Gradino dopo gradino.
Il primo l’ho già risalito.
Me ne mancano solo 767…

Un amore di nome Steve

Come se l’avessi scritto io… 🙂

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Oggi mi sono innamorata, di nuovo. Un Amore con la A maiuscola, un Amore che solo quella cosa li riesce a darmi. Mi ero già innamorata in passato. Alcuni amori sono svaniti nel tempo, altri rimangono imperituri nel mio cuore e vengono costantemente nutriti con il sacro fuoco della passione. Ma oggi, il mio cuore ha prima mancato un battito, poi ha avuto un sussulto. Di nuovo ha perso un battito. Mi sono sentita quasi soffocare, il cuore incastrato in gola, tra le tonsille (che dovrei decidermi a togliere).

Steve, il suo nome.

Sebbene l’enorme differenza di età e la probabile incomprensione legata alla lingua (è nato il 24 febbraio del 1950 a Philadelphia), questo è VERO AMORE. Avevo già avuto occasione di conoscerlo quando studiavo a Roma ma, complici le mie passioni per altre tipologie di connessioni amorose e la mia spavalderia giovanile, Steve era finito nel…

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Nothing is real

Oggi pomeriggio sono stata in centro a Torino con la mia amica Stefy. Abbiamo fatto una passeggiata e ci siamo fermate in un paio di negozi e bancarelle dove ho fatto degli acquisti molto interessanti (tra cui due penne stilografiche che mi sussurrano “scrivi, Anda… scrivi…” più di quanto non facciano già i miei due neuroni); lo scopo primario della nostra uscita, però, era visitare la mostra dal titolo “Nothing is real” allestita al MAO e dedicata alle influenze culturali, filosofiche, mistiche e sonore esercitate dall’Oriente (in particolare dall’India) sulla musica dei Beatles in particolare e, più in generale, su tutto quel filone psichedelico sviluppatosi a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70. La frase che dà il titolo alla mostra è tratta dalla celebre ed enigmatica canzone “Strawberry fields forever”.

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Ho trovato la mostra interessante, ma un po’ frammentaria. Avrei preferito un allestimento che mi calasse in quel periodo storico e in quel clima, magari coinvolgendo sensi differenti dalla vista. Fragranze orientaleggianti, incensi, luci psichedeliche, un sottofondo musicale. Nulla o quasi di tutto ciò, invece. Più che altro un excursus su alcuni pittoreschi aspetti di una parte della cultura e della controcultura di quegli anni. In ogni caso, piacevole per una persona già interessata e appassionata a musica e cultura del periodo. Mi ha senza dubbio riacceso una fascinazione, sopita da qualche tempo, esercitata da quegli straordinari anni così cruciali per musica e cultura.

Il mio spirito curioso e appassionato mi sussurra spesso all’orecchio che forse sono nata nel decennio sbagliato. O forse nel secolo sbagliato. O nel paese, o nel continente, o sul pianeta sbagliato. Forse nella galassia sbagliata.
Ci sono decenni e secoli e paesi vicini e lontani che mi chiamano per nome. A volte credo di sentirli prendermi per mano e correre via, veloci come solo il tempo inesorabile sa fare, e io dietro di loro.
Un’altra vita, un altro volto allo specchio, altre vesti sul mio corpo, altri gesti dalle mie mani, un’altra lingua nella mia testa e nella mia bocca, altre passioni nel mio cuore, un altro suolo sotto i miei piedi; lo stesso cielo sopra di me, a volte più giovane, altre più vecchio.
Mi piace cullarmi con questi pensieri.
Mi piace pensare di poter volare via in una grande cabina blu.
Mi piace l’idea di fuggire e l’idea di tornare.
Mi piace avere un concetto di casa un po’ più ampio del normale.
Mi piace sognare: preferisco farlo a occhi aperti, perché “living is easy with eyes closed“, e a me le cose facili non hanno mai fatto impazzire…

Autunno

Amo il momento in cui l’Estate volge verso l’Autunno.
Amo la prima sera di Agosto in cui, dopo l’ennesima giornata torrida, la mia Nonnina mi diceva di mettermi “lu golfìn” per stare fuori in giardino. E le Stelle, in quella fresca brezza, sembrano dieci volte più luminose della sera prima.

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Amo il modo in cui il Sole, portatore di luce, fonte di energia e di vita, secca e uccide la vegetazione in una dolce, lenta, calda, sonnolente agonia. Amo il modo in cui la Natura mostra la sua primordiale e dimenticata saggezza, e accetta la necessità e l’inesorabilità della sua Morte.

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Amo le prime piogge di Settembre e il modo in cui la Natura rinverdisce, l’erba ricresce, il bosco si riempie di vita, le castagne maturano.

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La Natura indossa il suo più bello e caldo e colorato e radioso vestito e balla e ride al suo funerale e ridendo e cantando ci dice addio (che poi è arrivederci) e si prepara alla Morte.
Al lungo, candido, gelido sonno dell’Inverno.

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Freeze, flight, fight

Tutti abbiamo paura di qualcosa. Chi dice il contrario è un incosciente, un disperato o un bugiardo.
C’è chi ha paura di poche, grandi cose, ed è difficile che nella sua quotidianità incontri quest’emozione, che ne respiri il fiato pesante, che ne tocchi la pelle scura e dura, che ne ascolti i bisbigli o le urla.
C’è chi ha paura di alcune cose, persone, animali, situazioni considerate inoffensive dai più, e capita che venga assalito all’improvviso dal terrore, nel mezzo del più normale dei giorni.
C’è chi ha paura di tutto o quasi, che viene assalito dall’ansia quando deve affrontare la più normale delle situazioni. Che sia per carattere, per vissuto, per mancanza di esperienza o per traumi subiti, queste persone hanno la paura come compagna di stanza e di vita.

Che una persona provi una forte paura una volta nella vita, o una volta all’anno, o una volta al minuto, poco cambia. La differenza sostanziale, a mio avviso, sta nella risposta che si dà alla paura. Continua a leggere “Freeze, flight, fight”

Ferita aperta

Cara amica,
oggi ho ripensato a te.
A volte, sai, mi capita di pensarti, come penso sia normale quando si divide una fetta di vita e di anima con un’altra persona, quando si instaura un affetto e una complicità magica, quando si diventa sorelle.
A volte, sai, mi capita di pensare, di ricordare dei momenti passati insieme, di analizzare nuovamente il processo quasi fulmineo che ci ha trasformate da sorelle a estranee che si evitano quando si incontrano in un negozio.
A volte, sai, mi capita di parlare di te con altre persone.

Oggi ho parlato di te con una persona che non mi pento di definire gemella.
Condensare un’amicizia come la nostra in un breve racconto non è semplice; ma, quando il cuore fa troppo male, diventa una necessità.
Quando un’amicizia diventa parole, diventa anche, in qualche modo, banale.
Quando una fine diventa un racconto, il gioco dei buoni e dei cattivi diventa inevitabile.
È colpa mia, perché ho fatto degli errori, non ho apprezzato i tuoi tentativi di aiutarmi nel mio periodo buio, non ti sono stata vicina in un momento importante, ho trattato malissimo una creatura per te speciale, ti ho cacciata via, me ne sono andata.
È colpa tua, perché non mi sei stata vicina come avrei avuto bisogno, perché le due volte in cui sono tornata col cuore in mano e scuse sincere mi hai liquidata con un “non lo so”, perché non sei stata capace di perdonarmi e darmi una seconda possibilità, perché forse se non lo sei stata è perché in fondo credi che le persone siano tutte sostituibili, perché di me hai potuto fare a meno, perché tutti sono utili ma nessuno è indispensabile.
Questo pensiero mi ha fatto salire una grande rabbia.
Ma la rabbia, ormai, non ha più su di me il potere che aveva prima, quando mi conoscevi. Ormai le ho tolto molto di quel potere. Soprattutto, le ho tolto il permesso di difendermi. E così, la rabbia si è presto trasformata in dolore.
Dolore, mancanza, senso di vuoto, senso di impotenza.
E lascio che il dolore mi invada, lascio che il dolore mi riempia, lascio che il dolore esca fuori da me sotto forma di lacrime.
Sono passati più di due anni, e tante cose per me sono cambiate.
Ho fatto altri errori, ho conosciuto altre persone, alcune orribili, altre stupende e insostituibili.
Ho cambiato casa tre volte.
Ho iniziato un percorso su me stessa che sta dando risultati insperati.
Ho imparato a comprendere le persone e a parlare dei problemi prima di venirne divorati.
Ho imparato la calma e l’autocontrollo (diciamo che è un processo ancora in corso).

Ma tutto
tutto questo
per te
non conta
nulla
Potrei prenderti la Luna
e portartela
e non cambierebbe
nulla

Per me
non c’è perdono
redenzione
speranza
luce

Solo una ferita
aperta
per sempre
aperta
sanguinante
dolente
monito
eterno
dei miei errori
della mia impotenza
dell’inesorabile
del necessario
della fine

Anni orsono

Circa sette anni e mezzo orsono vagavo incerta nell’atrio della stazione di Genova, con questa canzone nelle orecchie.

Nella mia testa, questa canzone parlava di me e te.
Eppure, in quella fredda mattina di febbraio, nelle mie orecchie c’eri tu ma i miei occhi cercavano un altro uomo.
Da ormai tre mesi, nel mio cuore c’eri ancora tu, c’eri sempre e solo tu, e ogni giorno cercavo un modo per strapparti via dalle sue pareti che continuavi, come un’edera malefica, a soffocare col vivido ricordo di te. Più precisamente, cercavo un’altra passione altrettanto intensa e piena con cui sostituire quella che avevo per te.

 

Mi è bastata una fugace ma intensa avventura con lui per costruire il mio castello in aria.
Il mio piano era perfetto: sostituire il dolore per averti perso con un’altra tensione, altro dolore, ma più contenuto. Sostituire i tuoi occhi scuri così simili ai miei con un altro paio di occhi chiari e molto differenti. E, intanto, ricominciare a vivere, a mangiare, a bere, a fumare, a respirare.
Sono stati mesi felici; non spensierati, ma pieni di speranza. Per la prima volta dopo anni, pensavo di avere una speranza di essere felice in quanto me.
E poi, c’erano sempre quei due occhi chiari a cui potevo appoggiarmi…

 

Poco più di sette anni orsono, sei rientrato di prepotenza nella mia vita, buttando all’aria il mio piano così ben congegnato, e senza processo lo hai condannato e hai condannando me, col tuo paradossale rigore morale che ancora oggi fatico a comprendere.
Non posso dire di non esserne stata felice.
Non posso dire che non ti amassi ancora.
Non posso dire che non abbiamo avuto altri giorni felici insieme.
Eppure, mi sono sentita di nuovo in prigione.
Mi sono sentita un piccolo pezzetto di metallo, tanto brillante e forte, che davanti a una calamita non può fare altro se non farsi trascinare.
Mi sono sentita al guinzaglio.
Mi sono sentita debole.

 

Quattro anni e mezzo orsono, quel guinzaglio tu lo avevi fatto cadere per terra e te n’eri andato.
Ho provato a seguirti per un po’.
Ho provato a parlarti, a spiegarti come mi sentivo.
Ho provato a mettere sul tavolo le carte che ancora avevo.
Ma tu, ormai, avevi mescolato il mazzo e lo avevi riposto nella sua scatola.
Ti eri dimenticato però di togliermi il guinzaglio.
E così, l’ho dovuto fare da sola.

 

E così, finalmente, ho smesso di farmi scegliere.
E ho iniziato a scegliere me.

Il peso della mia armatura

C’è chi para davanti a sé uno scudo per proteggersi dal mondo. Chi innalza un muro per isolarsi. Chi indossa una maschera per nascondersi. Io ho scelto di unire tutte queste cose indossando un’armatura.

È un’armatura molto pesante, sembra fatta di piombo; eppure è fatta di carne. Pesa quasi 50 kg. Portarla sempre addosso è una fatica immane, quindi a volte porto solo il pezzo di sotto, altre solo quello di sopra, altre solo l’elmo, e così via.

Ed è così che vivo la mia vita in modo sbilanciato.

 

Continua a leggere “Il peso della mia armatura”

La Vergogna

C’era una volta una bambina di nome Antonietta.

Aveva i capelli corti e gli orecchini a cerchio, e amava andare sull’altalena, arrampicarsi sugli alberi e giocare sia con le barbie sia con le macchinine. Erano gli anni ’90 ma, dato il suo hairlook e il suo interesse ludico ambivalente. era sicuramente già plagiata dalla lobby gay e dalla teoria del gender.

Antonietta aveva tanti amici, sia divertenti sia noiosi, sia simpatici sia antipatici, con cui si incontrava a scuola, al parco, a volte a casa dell’una o dell’altro.

Ma c’era un’amichetta da cui Antonietta non si separava mai, ma proprio mai. Era con lei quando si svegliava al mattino, era con lei quando faceva colazione, era con lei quando usciva di casa mano nella mano con la mamma per andare verso la scuola, era con lei durante la lezione di italiano, era con lei nell’intervallo, era con lei mentre la maestra di matematica le metteva una nota perché rideva con un’altra amichetta, era con lei mentre buttava di nascosto il cibo maleodorante e umidiccio della mensa, era con lei quando la mamma la veniva a prendere, era con lei quando andava al parco a giocare, era con lei quando al pomeriggio faceva i compiti insieme alla mamma, era con lei anche quando al pomeriggio la mamma lavorava e a casa c’era papà che non controllava il diario e allora giocava con le barbie dicendo di aver già fatto i compiti, era con lei quando la sera la mamma la obbligava a finire i compiti non fatti durante il pomeriggio, era con lei quando a cena c’erano lo spezzatino con i piselli o l’insalata (i due piatti che la piccola odiava di più), era con lei quando piangeva perché il papà la obbligava a mangiarli anche se proprio non li voleva, era con lei a guardare la tv nel lettone insieme a mamma e papà, era con lei quando faceva i capricci perché non voleva andare a letto, era con lei quando si rigirava sbuffando nel letto, era con lei quando infine si addormentava.

La piccola Antonietta non ricordava nemmeno esattamente quando fosse arrivata, quella compagnia così simbiontica; a volte pensava che fosse insieme a lei da sempre. Continua a leggere “La Vergogna”

La cozza e lo scoglio

Se fossi un animale, probabilmente sarei una cozza. A parte facili battute su quanto questo paragone sveli sulla mia autostima e sull’immagine che ho di me e del mio aspetto, io e la cozza abbiamo molto in comune. Per prima cosa, è un animale acquatico, il che, se già mi conoscete anche solo dai miei post, dovrebbe essere un’ottima prima argomentazione. Inoltre si nasconde in un duro guscio completamente nero, il che ricorda molto la visione d’insieme della splendida collezione di armature che celo nella cabina armadio della mia psiche. Sotto quel guscio, per chi sa accedervi con fiducia o indebolendola a sufficienza, vi è una polpa molto buona, probabilmente troppo: proprio questo, infatti, porta la cozza alla sua inevitabile e gustosa fine. Infine, last but definitely not least, la nostra amica cozza passa la sua vita alla ricerca di uno scoglio a cui aggrapparsi.

Gli scogli sono quelle persone estremamente sicure di sé, di quello che sono, di quello che fanno, della loro cruciale importanza per il destino del mondo. Sono così convinte da attirare a sé tutto uno stuolo di povere cozze insicure bisognose di un leader, di un esempio a cui tendere, di una figura di riferimento. Spesso sono amate da molti. Altre volte, sono odiate da molti; ma quei pochi che le amano, lo fanno con una devozione quasi religiosa. Sono infatti figure sostanzialmente iconiche. Non è tanto alla persona che ci si attacca, ma a ciò che rappresenta.

Le cozze come me, insicure, che tendono a dubitare di tutto e che cercano con disperazione un fermo appiglio nell’oceano in tempesta della vita, rimangono affascinate da queste figure, e piano piano ci si avvicinano, fino ad aggrapparsi a loro, mettendo loro in mano una parte importante della loro vita, dei loro progetti, dei loro segreti, del loro sentire. Lo scoglio ha sempre una risposta per la cozza, poiché lo scoglio, argenteo oracolo inanimato, sa tutto.

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Questa particolare cozza, nella sua esistenza, si è aggrappata a molti scogli. Poi, come spesso succede nei rapporti umani, lo scoglio si è sentito oppresso, la cozza ha iniziato a sentirsi trascurata, lo scoglio ha smesso di interessarsi agli stupidi e insignificanti problemi della piccola cozza, e ha semplicemente smesso di esserci. Come possa uno scoglio sparire in mezzo al mare, è un grande mistero. In effetti, non è che sparisca. Continua a leggere “La cozza e lo scoglio”