Ferita aperta

Cara amica,
oggi ho ripensato a te.
A volte, sai, mi capita di pensarti, come penso sia normale quando si divide una fetta di vita e di anima con un’altra persona, quando si instaura un affetto e una complicità magica, quando si diventa sorelle.
A volte, sai, mi capita di pensare, di ricordare dei momenti passati insieme, di analizzare nuovamente il processo quasi fulmineo che ci ha trasformate da sorelle a estranee che si evitano quando si incontrano in un negozio.
A volte, sai, mi capita di parlare di te con altre persone.

Oggi ho parlato di te con una persona che non mi pento di definire gemella.
Condensare un’amicizia come la nostra in un breve racconto non è semplice; ma, quando il cuore fa troppo male, diventa una necessità.
Quando un’amicizia diventa parole, diventa anche, in qualche modo, banale.
Quando una fine diventa un racconto, il gioco dei buoni e dei cattivi diventa inevitabile.
È colpa mia, perché ho fatto degli errori, non ho apprezzato i tuoi tentativi di aiutarmi nel mio periodo buio, non ti sono stata vicina in un momento importante, ho trattato malissimo una creatura per te speciale, ti ho cacciata via, me ne sono andata.
È colpa tua, perché non mi sei stata vicina come avrei avuto bisogno, perché le due volte in cui sono tornata col cuore in mano e scuse sincere mi hai liquidata con un “non lo so”, perché non sei stata capace di perdonarmi e darmi una seconda possibilità, perché forse se non lo sei stata è perché in fondo credi che le persone siano tutte sostituibili, perché di me hai potuto fare a meno, perché tutti sono utili ma nessuno è indispensabile.
Questo pensiero mi ha fatto salire una grande rabbia.
Ma la rabbia, ormai, non ha più su di me il potere che aveva prima, quando mi conoscevi. Ormai le ho tolto molto di quel potere. Soprattutto, le ho tolto il permesso di difendermi. E così, la rabbia si è presto trasformata in dolore.
Dolore, mancanza, senso di vuoto, senso di impotenza.
E lascio che il dolore mi invada, lascio che il dolore mi riempia, lascio che il dolore esca fuori da me sotto forma di lacrime.
Sono passati più di due anni, e tante cose per me sono cambiate.
Ho fatto altri errori, ho conosciuto altre persone, alcune orribili, altre stupende e insostituibili.
Ho cambiato casa tre volte.
Ho iniziato un percorso su me stessa che sta dando risultati insperati.
Ho imparato a comprendere le persone e a parlare dei problemi prima di venirne divorati.
Ho imparato la calma e l’autocontrollo (diciamo che è un processo ancora in corso).

Ma tutto
tutto questo
per te
non conta
nulla
Potrei prenderti la Luna
e portartela
e non cambierebbe
nulla

Per me
non c’è perdono
redenzione
speranza
luce

Solo una ferita
aperta
per sempre
aperta
sanguinante
dolente
monito
eterno
dei miei errori
della mia impotenza
dell’inesorabile
del necessario
della fine

Anni orsono

Circa sette anni e mezzo orsono vagavo incerta nell’atrio della stazione di Genova, con questa canzone nelle orecchie.

Nella mia testa, questa canzone parlava di me e te.
Eppure, in quella fredda mattina di febbraio, nelle mie orecchie c’eri tu ma i miei occhi cercavano un altro uomo.
Da ormai tre mesi, nel mio cuore c’eri ancora tu, c’eri sempre e solo tu, e ogni giorno cercavo un modo per strapparti via dalle sue pareti che continuavi, come un’edera malefica, a soffocare col vivido ricordo di te. Più precisamente, cercavo un’altra passione altrettanto intensa e piena con cui sostituire quella che avevo per te.

 

Mi è bastata una fugace ma intensa avventura con lui per costruire il mio castello in aria.
Il mio piano era perfetto: sostituire il dolore per averti perso con un’altra tensione, altro dolore, ma più contenuto. Sostituire i tuoi occhi scuri così simili ai miei con un altro paio di occhi chiari e molto differenti. E, intanto, ricominciare a vivere, a mangiare, a bere, a fumare, a respirare.
Sono stati mesi felici; non spensierati, ma pieni di speranza. Per la prima volta dopo anni, pensavo di avere una speranza di essere felice in quanto me.
E poi, c’erano sempre quei due occhi chiari a cui potevo appoggiarmi…

 

Poco più di sette anni orsono, sei rientrato di prepotenza nella mia vita, buttando all’aria il mio piano così ben congegnato, e senza processo lo hai condannato e hai condannando me, col tuo paradossale rigore morale che ancora oggi fatico a comprendere.
Non posso dire di non esserne stata felice.
Non posso dire che non ti amassi ancora.
Non posso dire che non abbiamo avuto altri giorni felici insieme.
Eppure, mi sono sentita di nuovo in prigione.
Mi sono sentita un piccolo pezzetto di metallo, tanto brillante e forte, che davanti a una calamita non può fare altro se non farsi trascinare.
Mi sono sentita al guinzaglio.
Mi sono sentita debole.

 

Quattro anni e mezzo orsono, quel guinzaglio tu lo avevi fatto cadere per terra e te n’eri andato.
Ho provato a seguirti per un po’.
Ho provato a parlarti, a spiegarti come mi sentivo.
Ho provato a mettere sul tavolo le carte che ancora avevo.
Ma tu, ormai, avevi mescolato il mazzo e lo avevi riposto nella sua scatola.
Ti eri dimenticato però di togliermi il guinzaglio.
E così, l’ho dovuto fare da sola.

 

E così, finalmente, ho smesso di farmi scegliere.
E ho iniziato a scegliere me.