Spezza la catena

 

One of these mornings
The chain is gonna break
But up until the day
I’m gonna take all I can take

Intrappolata.
Invischiata.
Incatenata.
Racconti a te stessa che questa è una tua scelta.
Racconti a te stessa di avere tu il potere.
Magari ti dai anche un tono.
Cerchi di essere forte, determinata, presente a te stessa.
Ma certi giochi, ragazza, non li vinci.
Non li vinci perché l’altro giocatore non sta affatto giocando. Sta barando. O forse sta seguendo regole radicalmente diverse dalle tue.
Ti illudi che restare sia una tua scelta, ma sei caduta in una rete più grande di te.
Ti illudi di poter ottenere ciò che brami, di poter vincere, o almeno di giocare ad armi pari.
E invece stai solo barattando tempo ed energie per due briciole secche e muffose.
E ti sembra di ottenere tanto, oh sì.
E ti dici ma sì, ti dici la vita è una.
E dall’altra parte del tavolo da gioco c’è qualcuno che non vuoi perdere, a cui non vuoi rinunciare.
E allora resti, ti umili senza accorgertene, scendi a compromessi, sacrifichi anche le tue carte migliori, all’occorrenza bluffi. Metti su la migliore delle tue poker faces, e lo fai pure con te stessa.
E mai, mai la tua mente è sfiorata dall’unico dubbio, dall’unica domanda che dovrebbe porsi…
Quali parti di te stai buttando via, per quelle briciole?
Cosa stai perdendo?
A cosa stai rinunciando?
E, quando finalmente la catena si spezzerà, piccola mia, ti troverai di nuovo con il cuore a pezzi, circondata dalle macerie polverose di ciò che un tempo non molto lontano era il tuo amor proprio, la tua mente brillante, il tuo spirito indomito… di ciò che un tempo eri tu.

I am not alone in this body

 

L’empatia è senza dubbio una delle mie caratteristiche fondanti. Da quando sono diventata la persona che sono (da quando cioè ho abbandonato i personaggi costruiti ad arte per ritagliarmi un ruolo all’interno delle aspettative altrui), l’empatia ha iniziato a condizionare sempre di più la mia vita e il mio modo di pormi nei confronti del mondo. Tuttavia, ciò non accade sempre allo stesso livello di profondità e di intensità. Dipende principalmente dal periodo che sto attraversando e dalle persone con cui mi sto rapportando.

Ci sono delle fasi molto particolari della mia esistenza in cui riuscirei a empatizzare anche con una foglia… in questi periodi, la pelle è sottile, il cuore è spalancato e senza difese. Passare troppo tempo in mezzo alle persone mi sfinisce, e sono costretta a isolarmi nella folla (col rischio di apparire sociopatica) e a limitare i contesti con molte persone; in casi particolari, persino la frequentazione delle poche Amiche con cui divido il cammino (con un’unica eccezione).

Poi c’è il fattore persone. Ovviamente la sofferenza o rabbia o gioia di una persona che mi è cara risulta facilmente contagiosa. Uno dei modi in cui capisco che mi sto affezionando sul serio a una persona è proprio constatare quanto io inizi a prendere sul personale le sue emozioni. Quanto mi immedesimi. Nel bene e nel male, in qualche modo le vite degli altri diventano mie, i loro cuori diventano il mio e i battiti si sovrappongono, e io non sono più io, o non del tutto, per una certa quantità di tempo, che a volte si estende fino a farmi interrogare su chi sia io, alla fin fine…

Ho un rapporto di odi et amo con l’empatia.
La amo perché crea legami, mi connette con le persone, mi rende un’amica e un’umana migliore, mi spinge all’azione (nel senso molto egoistico che tale azione, avendo conseguenze positive sugli altri, finisce per averle anche su di me).
A volte la odio: quando mi colpisce a tradimento, quando raggiunge picchi di intensità tali da rasentare il dolore fisico, quando l’immedesimazione nell’altrui dolore è così totale da impedirmi di concentrarmi sulla mia vita, quando l’immedesimazione nelle altrui gioia ed emozioni fondanti è così totalizzante da impedirmi, in quella rapsodia di luci e colori, di mettere a fuoco chi sia io, dove inizi e dove finisca il mio ego, e cosa invece sia fuori di me.
Penso però che, anche nei suoi lati negativi e “scomodi”, l’empatia sia una forma istintuale di saggezza primigenia… ci ricorda, cioè, che in un certo senso, al di sotto di tutto ciò che la ragione può capire, non esiste un io, un tu, una lei, un lui, un loro, ma che siamo tutti collegati, siamo tutti un’unica anima, siamo tutti l’universo, o meglio, parafrasando Carl Sagan, siamo il modo che ha l’universo di esperire e sperimentare e sentire se stesso, un modo imperfetto, travolgente, in movimento, fatto di carne e sangue e ossa e pelle e piume e arti e code, fatto di occhi e cervelli e cuori, fatto di musica e arte e poesia e matematica e filosofia, fatto di grida e sussurri e gemiti e silenzi e respiri, di morte e vita, fatto di pianti e sorrisi, drammatico, cruento, terribile, meraviglioso, assolutamente e totalmente fine a se stesso e alla contemplazione della propria sublime e viva bellezza.

Qualcuno che non ero io

I rapporti umani sono sempre stati un po’ un’incognita per me.
Fin dall’infanzia ho sempre desiderato essere accettata dagli altri, soprattutto dai tipici gruppi e gruppetti di varia sorta. Peccato che io non sia una persona adatta a far parte di un qualsivoglia gruppo: da brava introversa, mi sono sempre relazionata con naturalità con una persona per volta, e già uscire con due, tre o quattro amici mi risulta da sempre un po’ artificioso. Così, per adattarmi a questa realtà per me innaturale ma tanto comune e dunque bramata, ho finito per costruirmi un personaggio, che negli anni si è evoluto e che ha avuto un certo successo all’interno di diversi gruppi, sia in amicizia sia in attività di diverso genere. Disgraziatamente, però, quel personaggio non ero io.
Anche nei rapporti con i singoli, a volte, si ripresenta quello stesso personaggio oppure un altro preso dal mio ampio catalogo o ancora se ne crea uno nuovo ad hoc, modellato sulle esigenze, sul carattere e sui gusti dell’altra persona; in ogni caso, si torna sempre al punto di partenza: la volontà di essere accettata e benvoluta. A questo si aggiunga anche un’empatia fuori misura che a volte mi rende difficile distinguere i miei pensieri, sentimenti ed emozioni da quelli della persona che mi sta di fronte, tanto più se mi sta a cuore; e infine, una difficoltà (in parte innata, in parte rinforzata da anni di sottile violenza psicologica) nel dare valore ed espressione ai miei sentimenti.
Ecco, come avevo detto, i rapporti umani per me sono un casino.
Tuttavia non sono certo un’ingenua: sono perfettamente consapevole che ogni persona è uno, nessuno e centomila, che tutti indossiamo delle maschere e che, nella vita di tutti i giorni, ciò è assolutamente necessario e persino positivo. Penso anche, però, che tutti abbiamo bisogno di avere intorno almeno una manciata di esseri umani con i quali poter essere semplicemente noi stessi, se non sempre, almeno per la maggior parte del tempo. Penso inoltre di poter affermare (sentendomi peraltro molto fortunata) di avere intorno alcune persone che mi sono Amiche nel senso più pieno del termine, e con le quali posso essere davvero me stessa, ed essere accettata per ciò che sono, anche quando accettarmi, apprezzarmi e persino sopportarmi è impresa ardua.
Semplicemente me, con la mia incoerenza, la mia rigidità, i miei sbalzi di umore, il mio ciclo preciclo ovulazione, la mia meteoropatia, il mio amore per la musica, i miei scazzi, la mia mancanza di tatto, la mia pelle sottile, il mio astio verso il contatto fisico, la mia capacità di ascoltare e di porre le domande giuste e di dire la frase giusta che ti faccia guardare la questione da un altro punto di vista. Io con i miei tre più n cani, i miei tatuaggi, i miei capelli ricci a cazzo, la mia macchina zozza, la mia guida e i miei modi da camionista, la mia pigrizia, il mio disturbo alimentare, la mia amata odiata accettata-per-il-rotto-della-cuffia solitudine, la mia autostima altalenante, le mie ferite aperte e le mie cicatrici, la forza e la fragilità di una donna che è caduta mille volte e si è rialzata mille e una, che è andata in pezzi cento volte e ogni volta ha rimesso insieme i suoi cocci, spesso dimenticandosene qualcuno per strada senza mai avere paura di fare uno, due, dieci passi indietro per provare a ritrovare un frammento mancante, spesso invano.
Questa sono io, signori.
Se mi incontrate sul vostro cammino, potrei ringhiarvi, ma subito dopo potrei farvi entrare, anche se non me lo chiedete.
Se vi faccio entrare, però, sappiate che io sono tutto questo e molto di più, che io sono io e mai più nella vita cercherò di cambiare per essere accettata da qualcun altro.
Io sono così, e se vi faccio cagare vivo bene lo stesso, e vivo bene lo stesso anche se un giorno mi adorate e il giorno dopo non esisto più. E mai, mai più correrò dietro a qualcuno per chiedergli cosa abbia detto o fatto o cosa sia stata per non esistere più.
I motivi, tanto, sono sempre gli stessi.
Anzi, è sempre lo stesso.
Adoravate qualcuno che non ero io.

Deutsch Wind

Rieccomi qui, cari miei quattro lettori, a farmi sentire dopo due mesi di silenzio stampa segnati da un’intensa attività lavorativa contrapposta a momenti di letargo, chiusura, riposo, immobilismo che si sono presi ogni mio attimo libero.
Un letargo, che sia reale, metaforico o un’equa commistione di entrambi, è come un sonno: non sterile periodo di buio e oblio, bensì ricco di attività onirica. Mille e mille elementi, luminosi e oscuri, si agitano e ribollono nell’ombra, e nel ribollire capita a volte che qualcosa venga a galla e si palesi. Così è stato per me: alcune cose nascoste nell’oscurità si sono lentamente palesate, hanno assunto una forma primordiale, una grigia sagoma d’ombra, e si sono fatte implacabili inevitabili fantasmi e hanno iniziato ad affollarmi la testa e il cuore.
Per un curioso complotto del Caso, l’apice di questo processo è avvenuto durante la mia breve vacanza tedesca alla fine del mese scorso. Tale esperienza, più precisamente, è stata la ciliegina sulla torta: una combinazione di fattori, un turbinio di elementi che ha tolto la polvere dagli ingranaggi e ha acceso una lampadina, permettendomi di vedere le cose con un po’ più di chiarezza.

Il primo colpo di vento è stato rivedere dopo cinque mesi una cara amica, una sorella, una compagna strega. Tornare a sorseggiare caffè insieme, ma caffè americano (che ho imparato ad apprezzare) invece che espresso. Tornare a mangiare insieme, ma bretzel invece che pizza. Fare shopping insieme, ma da Primark e da Deichmann invece che da Decathlon. Parlare per ore di noi, delle nostre speranze, dei nostri desideri, delle nostre paure, ma sedute a a un gelido tavolino fuori da Starbucks a Stuttgart invece che su una panchina sulla cima di una montagna a San Pancrazio. Certe cose cambiano, ma quelle importanti rimangono le stesse.

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Il secondo colpo di vento è stato un concerto. Riscoprire, forse per la prima volta in modo pieno, una band favolosa che da vent’anni regala al mondo, con britannica eleganza e un pizzico di strafottenza, una scarica di emozione che si trasmette per osmosi. Potevo sentire l’emozione propagarsi nell’aria di quel palazzetto, tra il pubblico tedesco un po’ mogio e indifferente. Più che un Placebo, questo concerto è stata una vera e propria medicina.

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Il terzo colpo di vento è stata la città di Ulm: camminare per le vie della vecchia Ulm arroccata sul Danubio blu che scorre e scorre e scorre modificando lentamente ma inesorabilmente l’aspetto delle case e degli edifici, che sembra quasi vogliano gettarvisi dentro per accompagnarlo nel suo solitario fluire verso il mare del nord; i mercatini di Natale con i loro oggettini, i dolciumi, l’odore del Glühwein, i banchetti che vendono hot dog e altre specialità che diffondono nell’aria un olezzo di carne e unto e fritto così intenso da sembrare rancido, intervallato a tratti da un caldo e confortevole odore di biscotti speziati.
E poi lei.
La Cattedrale.
La C maiuscola è d’obbligo: Ulmer Münster è infatti un duomo gotico grandioso il cui campanile vanta il primato di più alto d’Europa, con i suoi 161,53 metri e la bellezza di 768 gradini.

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Il quarto e ultimo colpo di vento mi ha catapultata nuovamente a casa mia, in Italia. Ho ritrovato tutto come lo avevo lasciato. I miei tre cani sono stati amorevolmente accuditi dai nonni. I miei allievi a quattro zampe mi hanno aspettata pazientemente per ricominciare con le nostre scampagnate nei boschi. Il meteo si è sbizzarrito durante la mia assenza, con tempeste, alluvioni e devastazioni, ma ora è tornato nella norma.
Tutto è rimasto uguale, tutto nella norma.
Tutto tranne me.
Il cambiamento che covava nell’ombra è venuto alla luce, finalmente. Mille nuove avventure mi aspettano, tutte pronte ad essere vissute e a darmi enormi soddisfazioni; a un solo patto, però:
agire.
Risalire la mia personale cattedrale, alta, enorme, spaventosa, protesa verso l’ignoto, protesa verso il divino.
Gradino dopo gradino.
Il primo l’ho già risalito.
Me ne mancano solo 767…

Ferita aperta

Cara amica,
oggi ho ripensato a te.
A volte, sai, mi capita di pensarti, come penso sia normale quando si divide una fetta di vita e di anima con un’altra persona, quando si instaura un affetto e una complicità magica, quando si diventa sorelle.
A volte, sai, mi capita di pensare, di ricordare dei momenti passati insieme, di analizzare nuovamente il processo quasi fulmineo che ci ha trasformate da sorelle a estranee che si evitano quando si incontrano in un negozio.
A volte, sai, mi capita di parlare di te con altre persone.

Oggi ho parlato di te con una persona che non mi pento di definire gemella.
Condensare un’amicizia come la nostra in un breve racconto non è semplice; ma, quando il cuore fa troppo male, diventa una necessità.
Quando un’amicizia diventa parole, diventa anche, in qualche modo, banale.
Quando una fine diventa un racconto, il gioco dei buoni e dei cattivi diventa inevitabile.
È colpa mia, perché ho fatto degli errori, non ho apprezzato i tuoi tentativi di aiutarmi nel mio periodo buio, non ti sono stata vicina in un momento importante, ho trattato malissimo una creatura per te speciale, ti ho cacciata via, me ne sono andata.
È colpa tua, perché non mi sei stata vicina come avrei avuto bisogno, perché le due volte in cui sono tornata col cuore in mano e scuse sincere mi hai liquidata con un “non lo so”, perché non sei stata capace di perdonarmi e darmi una seconda possibilità, perché forse se non lo sei stata è perché in fondo credi che le persone siano tutte sostituibili, perché di me hai potuto fare a meno, perché tutti sono utili ma nessuno è indispensabile.
Questo pensiero mi ha fatto salire una grande rabbia.
Ma la rabbia, ormai, non ha più su di me il potere che aveva prima, quando mi conoscevi. Ormai le ho tolto molto di quel potere. Soprattutto, le ho tolto il permesso di difendermi. E così, la rabbia si è presto trasformata in dolore.
Dolore, mancanza, senso di vuoto, senso di impotenza.
E lascio che il dolore mi invada, lascio che il dolore mi riempia, lascio che il dolore esca fuori da me sotto forma di lacrime.
Sono passati più di due anni, e tante cose per me sono cambiate.
Ho fatto altri errori, ho conosciuto altre persone, alcune orribili, altre stupende e insostituibili.
Ho cambiato casa tre volte.
Ho iniziato un percorso su me stessa che sta dando risultati insperati.
Ho imparato a comprendere le persone e a parlare dei problemi prima di venirne divorati.
Ho imparato la calma e l’autocontrollo (diciamo che è un processo ancora in corso).

Ma tutto
tutto questo
per te
non conta
nulla
Potrei prenderti la Luna
e portartela
e non cambierebbe
nulla

Per me
non c’è perdono
redenzione
speranza
luce

Solo una ferita
aperta
per sempre
aperta
sanguinante
dolente
monito
eterno
dei miei errori
della mia impotenza
dell’inesorabile
del necessario
della fine

Il peso della mia armatura

C’è chi para davanti a sé uno scudo per proteggersi dal mondo. Chi innalza un muro per isolarsi. Chi indossa una maschera per nascondersi. Io ho scelto di unire tutte queste cose indossando un’armatura.

È un’armatura molto pesante, sembra fatta di piombo; eppure è fatta di carne. Pesa quasi 50 kg. Portarla sempre addosso è una fatica immane, quindi a volte porto solo il pezzo di sotto, altre solo quello di sopra, altre solo l’elmo, e così via.

Ed è così che vivo la mia vita in modo sbilanciato.

 

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